sabato 24 dicembre 2011

Mashrooms: “Mashrooms”


Sulle scene dal 1999 tornano a farsi vivi i Mashrooms, band sempre pronta a unire sonorità facilmente individuabili in un contesto di rock indie, con timbri e sensazioni appartenenti a mondi distanti, come archi e pianoforte. Quest’album omonimo, registrato in quel di Senigallia, propone nove brani che spaziono dal rock trasversale e introspettivo dell’opener “Uragano”, ai suoni isterici e spettinati di “Freedom Flotilla” e “Black Widow” o della barcollante “Playground”, fino a lambire i confini dell’oscurità formale di “Tiranno”, brano che più di ogni altro riesce a tradurre l’attitudine post della band. Per il resto “Mashrooms” denuncia qualche cedimento quando i ragazzi non riescono a innescare il giusto connubio tra tecnica ed espressività (“Cello #2”) e nei momenti in cui si lasciano prendere la mano dalle modalità in stile soundtrack (“Portrait of a Woman”), anche se – nel suo insieme – il lavoro si fa ascoltare con buon interesse, essendo portatore sano di spunti e idee originali che non sempre si riscontrano in progetti simili.

Paramount Styles: “Heaven’s Alright”


I Paramount Styles tornano in pista con un nuovo album in studio a distanza di tre anni da “Failure American Style” e dopo aver macinato una nutrita serie di live performance, che hanno delineato in maniera decisiva il carattere e l’approccio stilistico della band fondata nel 2005 da Scott McCloud (ex Girls Against Boys) in quel di New York. “Heaven’s Alright” rilascia momenti in perfetto equilibrio tra ruvidezza espressiva e atmosfere rilassate, come nel caso dei primi due brani in tracklist: “Take Care of Me” e “Amsterdam Again” sembrano arrivare da mondi opposti, ma riescono a darsi una continuità d’ascolto che si mantiene viva fino all’ultimo riff proposto. Tra le cose migliori di questo lavoro segnaliamo la coinvolgente “Desire is Not Enought”, le delicate “The Girls of Prague” e “Steal Your Life” - dove si evidenzia anche una buona vena cantautorale -, e “White Palaces” con le sue svasature pop. Però non tutto fila liscio, va detto. Leggi i brani giocati su andamenti troppo leggeri e ammiccanti (“The Greatest”), ma per il resto quello dei Paramount Styles ci è sembrato un indie rock ben messo a punto, magari bisognoso di qualche ruga in più, ma per quelle ci sarà tempo.

The Megs: “Jealousy”


L’album d’esordio dei The Megs profuma di rock in senso stretto, fatto con la giusta grinta, passione autentica e piglio personale forgiato su una corretta dose di ammirazione nei confronti di realtà più affermate. Il riferimento è a certe situazioni targate Smashing Pumpkins, ma anche Primus e dintorni per capirci, anche se poi a emergere negli otto brani proposti è una sorta di garage-rock dalla solida intelaiuatura ritmica, sulla quale Edoardo Laino – bassista e fondatore della band – canta testi in inglese con buona interpretazione. “Jealousy” si lascia apprezzare nella sua mezzora di durata per via di situazioni aride e tese al punto giusto, come l’iniazle “Colour of Jealousy”, per alcuni momenti ruvidi e intrisi di sana alterazione sensoriale (“Good Morning”), ma anche per una serie di buoni propositi che trovano – dopo alcuni ascolti – la loro esatta collocazione all’interno di un modo espressivo non del tutto scevro da qualche ripetizione e da comprensibili passaggi a vuoto. Lavoro che va oltre la sufficienza e che lascia intendere che saranno i prossimi episodi – magari più articolati e maggiormente complessi dal punto di vista concettuale - a rivelarci l’esatto valore specifico di questa band.

Agrado: “Rumore Bianco”


Quando è il rifacimento di un brano molto famoso la traccia meglio riuscita di una scaletta c’è da diffidare, a ragion veduta, dal resto del programma. È il caso di “Piccola Luce”, versione in italiano dell’evergreen “Change” dei Tears For Fears, che gli Agrado producono mettendo in risalto una buona duttilità esecutiva, e una decisa voglia di andare a pizzicare le giuste corde emozionali. Intenti apprezzabili, ma che non vengono mantenuti sullo stello livello per il resto del loro “Rumore bianco”. Album onesto, va detto, ma che troppo spesso scivola nei classici tranelli che il pop italiano porta dentro di sé. Il dito è puntato verso i ritornelli eccessivamente ammiccanti, le forme smaccatamente filo-commerciali e quell’andamento che continuamente richiama in mente cose già sentite, logore nel loro continuo riproporsi. I ragazzi hanno delle qualità, lo si evince dal modo in cui sono messe in piedi le strutture ritmiche e melodiche, ma mancano sotto il profilo della determinazione e della voglia di tirare fuori dal sacco la propria linfa vitale, quella stessa voglia che li fa alzare la mattina per attaccare gli strumenti agli amplificatori.

Peter Kernel: “White Death Black Heart”


C’è della qualità nel modo di fare musica dei Peter Kernel. Il loro secondo lavoro sulla lunga distanza “White Death Black Heart” segue il debutto “How to Perform a Funeral” del 2008 e rilascia, in dodici brani ben congegnati, un’attitudine che si rifà a certe sonorità indie d’oltremanica, fatte di cantato visionario, slanci chitarristici, cortocircuito formale tra song e situazioni più articolate. La band trova nella voce sensuale quanto basta di Barbara Lehnhoff il suo tratto di riconoscimento, mentre Aris Bassetti (chitarra) e Ema Matis (batteria) riescono a costruire un’intelaiatura rimico/melodica capace di creare, senza mai invadere troppo il campo, uno sfondo pronto ai cambi di scenario, vivo e scintillante. Tra i colpi meglio riusciti mettiamo l’asterisco vicino a “We’re Not Gonna Be the Same Again”, per il buon equilibrio ottenuto tra espressività e qualità performativa, mentre lasciano il tempo che trovano le tracce che si allineano in maniera troppo evidente ad alcuni percorsi già battuti, vedi quelli cari ai primi Franz Ferdinand. Qualità si diceva. Sì perché i Peter Kernel non danno l’aria di essere la milionesima indie band forgiata sullo stereotipo del low-fi di facciata, ma nel loro sangue scorre l’adrenalina e la sana perdizione dell’arte sviluppata con ispirazione autentica.

Wolfang Shock: “Viola”


“Viola” è un album che si muove nell’ambito del rock italiano basato su atmosfere levigate, ritornelli orecchiabili, tematiche riferite agli aspetti della quotidianità con qualche affondo leggermente più tagliente, ma non in grado di lasciare un segno di vita palpabile. Niente di nuovo dunque nello stile e nell’approccio esecutivo dei Wolfang Shock, band nata nella provincia di Pescara con all’attivo un Ep omonimo e una manciata di live performance in ambito locale. I ragazzi giocano a carte scoperte, cosicchè le loro attitudini sono ben chiare in “Loop Day”, brano con velleità da singolo di successo, al quale segue la spensierata “Anomalie Monumentali”, la più ombrosa title track, e una serie di episodi che non riescono a tirarsi fuori da una sabbia mobile formale troppo melensa per essere vera. Ma qualcosa di buono c’è negli undici brani in programma. Il riferimento è verso quei momenti dove i ragazzi sfrondano tutto il superfluo della propria impalcatura, vedi la splendida “Il suonatore di Ghironda”, indagando un’intimità capace di colpire la giusta corda emozionale, tirando fuori quei significati che troppo spesso vengono lasciati intendere senza la giusta determinazione. Qualcosa brucia sotto la cenere, ne siamo certi.

Vitas Guerulaïtis: “Vitas Guerulaïtis”


Questo trio francese, che agisce nell’area di Bruxelles e dintorni, prende il nome dal tennista statunitense rimasto negli almanacchi per aver vinto gli Australian Open nel 1977 e nella memoria di molti per una serie di vicende curiose che lo hanno visto protagonista. Quella dei Vitas Guerulaïtis è una miscela stilistica che non può lasciare indifferenti, dove interagiscono un approccio tecnico sporco - che per intenderci definiremo punk -, una capacità di scolpire le forme delle otto tracce in scaletta con modalità free – nell’accezione più ampia del termine -, e una verve esecutiva che non viene mai usata con parsimonia. Attitudini ben in evidenza nell’opener “Ben Hur”, rumoristica e intrigante al punto da incuriosire anche l’ascoltatore più smaliziato e privo di pregiudizi, che poi nei sette minuti di “Panda Géant” vengono amplificate e dilatate in maniera determinante da una serie di inserti elettronici, loop, voci deliranti, rumori in senso stretto e slanci d’assoluto astrattismo. La musica della band non rimane mai ferma su se stessa, muovendosi continuamente in maniera trasversale alla ricerca dell’inedito, del cortocircuito espressivo, del concetto estremo. Geniali e autoreferenziali forse, ma di certo coraggiosi.

venerdì 23 dicembre 2011

Tim Holehouse: “Grit”


Tim Holehouse, cantautore vicino ai modi di Nick Cave, magari un pizzico più cattivo, dà fondo a tutta la propria capacità espressiva e al suo modo sanguigno di sviluppare rock autentico in “Grit”, terzo album della sua carriera solista.
Voce graffiante e cavernosa (scelta dovuta anche a dei problemi di salute ai quali non si è potuto sottrarre) in grado di descrivere scenari dal sapore blues (“Rogues Gallery”), che non si piegano mai verso un’attitudine di larga fruizione, che però riescono a lasciare traccia del loro passaggio sia nei momenti più scarni ed essenziali (“Broken Bones”) che in quelli dove si delineano melodie più complesse (“Into Mexico”). Dietro di lui si muovono i The Gentlemen, una band capace di produrre un suono massiccio, dal mood aspro che si incarna negli otto brani proposti in scaletta; un lotto di canzoni brevi, fulminee, registrate in studio senza grandi alchimie – si direbbe sporche come le mani raffigurate in copertina - e che dunque si portano dietro un forte odore di autenticità.

Diane and the Shell: “Barabolero”


Due chitarre, basso, batteria, tastiere giocattolo, ironia, math rock rivisto e corretto in chiave più melodica e fruibile, compongono l’interessante miscela proposta dai Diane and the Shell, quartetto che ha mosso i primi passi dalla natia Catania e che oggi arriva alla pubblicazione di “Barabolero” dando fondo a una buona originalità.In meno di mezzora troviamo dieci episodi strumentali caratterizzati da repentini cambi di scenario – anche all’interno dello stesso brano – che restituiscono un ascolto in perenne movimento, che prende spunto da sonorità popolari, sia dell’Italia meridionale ma anche da alcune reminescenze balcaniche, per passare al pop più sbarazzino e disincantato, costruito attraverso l’assimilazione e la reinvenzione di temi tratti da film spaghetti-western, soundtrack televisive e sonorità dimenticate in certe soffitte anni Ottanta.
Ci sono tante buone idee in quest’album, dove nessun pezzo sembra sovrastare gli altri, perché forte di una propria anima, in un insieme colorato che potrebbe portare i nostri anche a vette di maggior richiamo. Singolari.

Jester at Work: Lo-fi, Back to Tape


Undici tracce in poco più di mezzora segnano il ritorno alle scene di Antonio Vitale, già conosciuto nel 2005 con il moniker di El Dobro, qui alle prese con un approccio cantautorale volutamente lo-fi, sia sotto il profilo dell’espressività che del contesto di registrazione. “Lo-fi, Back to Tape” è difatti stato inciso con l’ausilio di un vecchio registratore analogico Fostex, e rilascia quell’inconfondibile e fascinoso aroma di polvere e fruscii, andamenti sofferti e atmosfere alcoliche di notti passate in bianco. Voce e chitarra, tranne che in un paio di episodi più complessi, un po’ Nick Cave ma anche Tom Waits, Jester at Work si lascia ampiamente apprezzare per il suo modo spontaneo e profondo di intendere il songwriting, senza pose e soluzioni semplicistiche, rigorosamente a debita distanza dalle logiche di larga fruizione, sempre pronto a gettare il cuore oltre l’ostacolo per arrivare all’emozione, all’esatto punto d’equilibrio tra testo e musica, tra ragione e sensazioni. Press play on tape.

The Cesarians: I’m with God - EP


Dopo il debutto omonimo del 2009, prodotto da Craig Leon, tornano sulle scene i Cesarians, band che nel frattempo si è messa in mostra per le performance live dal buon impatto in alcuni festival di rilievo. Il nuovo ep dal titolo “I’m with God”, licenziato da Africantape, propone cinque brani che rilanciano e rinverdiscono le chance della band inglese, grazie soprattutto alla loro attitudine compositiva che prende sempre distanza dalla semplice sufficienza e dallo scimmiottamento diffuso in ambito indie. L’utilizzo di archi e fiati, il pianoforte di Justin Armatage, la voce mutevole di Charlie Finke, sono i punti di forza di una scaletta varia, aperta da una title track alla camomilla, che cede il passo alla più consistente “In Your Horse”, brano avvelenato al punto giusto, con il quale fa il paio – per carattere e atmosfera acidosa - “Worst Thing”, da ballare magari sotto un palco d’estate. Chiudono il lotto “Schoolyard”, lentissima scura e malinconica, e “Questa è lei”, poesia di Jan Noble letta da Antonio “Jester at Work” Vitale.

lunedì 12 dicembre 2011

Malazeta: “Burattinai”


Progetto interessante quello dei Malzeta. La band, nata nel 2005 dopo lo scioglimento del gruppo Sognoplastico, ha già all’attivo un album basato sui testi di Primo Levi, e con “Burattinai” ribadisce con decisione il proprio discorso artistico. Un modo di esprimersi che esula dalle maniere semplicistiche, e che trova la giusta ispirazione dal libro “Il lato oscuro del nuovo ordine mondiale”, di Marcello Pamio, per dar vita ai dieci brani in programma. Passaggi fortemente caratterizzati dalla voce di Michele Segala, che non canta ma legge i testi amari, diretti e senza giri di parole che delineano uno stile asciutto, reso piacevolmente indigesto dalla chitarra affilata di Marco Trevisan. “Burattinai” punta il dito verso quella parte di società arrivista e schiava di se stessa, delle proprie abitudini e delle proprie apparenze, per lanciare un messaggio di speranza, che a tratti somiglia a un grido, teso a ottenere un futuro migliore, che non può eludere una presa di coscienza e una voglia di creare qualcosa di concreto senza scorciatoie. Siamo nell’ambito di quel songwriting spigoloso che nulla concede agli abbellimenti e alle soluzioni di comodo, cosicchè l’album necessita di qualche ascolto in più per essere compreso nelle intenzioni e, in caso, apprezzato in pieno. Ce ne fossero.

Cesare Livrizzi: “Dall’altra parte del cielo”


Cesare Livrizzi guarda lontano, o almeno ci prova, in un panorama cantautorale italiano troppo spesso uguale a se stesso, incapace di progredire in qualsiasi direzione. E lo fa con un album – dato alle stampe da Zone di Musica – dal titolo emblematico: “Dall’altra parte del cielo”. Il nostro si era fatto notare ai più attenti con un demo autoprodotto nel 2007, da lì in poi ha inanellato una serie di riconoscimenti e attenzioni che lo hanno accompagnato nella realizzazione di questo primo lavoro sulla distanza che conta. Undici brani che non deragliano dai binari dell’immagine comune del cantastorie, pronto nel narrare la realtà che lo circonda, ma che Livrizzi riesce a piegare verso una propria personalità, che sta prendendo forma e che lui stesso – nel modo di cantare e nell’interpretare un pensiero - riversa a piene mani in testi ben assemblati, adagiati su fondi costruiti con piglio e qualità. E diversi sono gli aspetti di pregio qui contenuti, come gli interventi del violino di Valeria Sturba o gli inserti di pianoforte che rilasciano eleganza e distensione. La scaletta proposta scorre senza grandi strappi – tra canzoni in senso stretto e momenti ai confini della narrazione poetica -, in un andamento complessivo dal sapore spesso agro, nel quale il cantautore siciliano non bada molto agli abbellimenti di facciata, preferendo ai ritornelli a presa rapida una profonda ricerca dell’essenza, la propria.

Polinski: “Labyrinths”


Paul Wolinski dà alle stampe il suo debut album dal titolo “Labyrinths”, anche se di labirintico, intrigante e misterioso c’è ben poco. Questo perché le sette tracce proposte evidenziano l’amore di Polinski per le sonorità elettroniche degli anni Ottanta, quando una nascente flotta di synth e di programmi per fare musica senza l’ausilio di uno studio di registrazione iniziavano a fare breccia nel cuore di una genarazione di adolescenti, occupando gran parte dei loro interessi giornalieri. L’album nasce proprio con l’intenzione di recuperare, e dunque riproporre, quelle atmosfere, rimettendo nel pentolone dell’indietronica suoni e visioni di un passato tanto recente quanto invecchiato se messo in relazione con la stretta attualità. Operazione riuscita dunque solo in parte, cioè quando – come nella ballabile “Tangents” - si costruisce intorno a certe soluzioni melodiche una robusta gabbia ritmica dall’approccio più fresco e moderno. Molto meno digeribile il vocoder di “Stiches”, tanto per citare uno dei diversi passaggi a vuoto di questo lavoro, lodevole nelle intenzioni, meno godibile nella sua riuscita complessiva. Da rimarcare anche la dozzinalità di “Still Looking” e la scarsa inventiva che attanaglia quasi l’intera tracklist. Game over.

domenica 11 dicembre 2011

Luca Bussoletti: “Il cantacronache”


La musica di Luca Bussoletti si muove nell’ambito del songwriting tricolore, e lo fa con buon gusto, idee applicate con intelligenza e soluzioni varie che danno vita a una scaletta di dieci brani che si lasciano ricordare anche dopo il primo ascolto. Il suo “Il cantacronache” denuncia un modo espressivo leggero (“A spasso col mio cane”), propone situazioni sociali e personali tradotte con un pop piacevole e brioso (“La sindrome di Peter Pan”), ma anche con un buon piglio riflessivo, come in “A solo un metro”, dove troviamo la voce di Dario Fo, un brano profondo nei significati e riuscito nell’incontro tra ritmo e melodia. Si fanno apprezzere anche canzoni più calme, come “Buon Natale” e “C’era una volta un re”, che evidenziano la buona duttilità di Bussoletti. Il nostro a volte si sposta in maniera eccessiva verso alcuni percorsi espressivi prevedibili, come in “Patrizio l’emigrante”, anche se nel suo insieme l’album si mantiene su una giusta tensione tra testo e musica, tra significato e disimpegno. All’interno del cd si legge la frase “attenzione! i testi di questo disco potrebbero avere un senso”, in effetti è così, e in effetti – considerati i tempi che corrono – non è certo poca roba, anzi.

Andrès Garcia & The Ghost: “Haunted Love”


Andrès Garcia è un produttore di musica elettronica, e con “Haunted Love” realizza un delizioso pop-album che contribuisce a rendere il suo curriculum ancora più vario e degno di nota. Nove sono le tracce in programma, che spaziano dai suoni raffinati di “I am No Longer”, brano sensuale giocato su ritmi non veloci, al minamalismo elettronico dell’only instrumental “Deep Down”, agli andamenti buoni per il dancefloor dell’iniziale “Playing Love”, alle venature pop vagamente anni Ottanta di “All My Tropics”, singolo potenzialmente da chart radiofonica. Garcia riversa nell’intero lavoro uno stile molto personale, con abbellimenti degni di un arredatore attento allo sfruttamento degli spazi, anche quelli più esigui, e alla luminosità delle sue stanze sonore, timbricamente sempre molto aperte e quasi mai inclini alle oscurità riflessive. Quasi, perché quando meno te lo aspetti la scaletta ci regala anche un momento di puro songwriting con “Wavelenghts Passions”, una sorta di valzer post-moderno che ti culla all’infinito e ti lascia sognare fino a tarda ora. Album patinato, curato in fase di post-produzione, destinato però solo agli amanti delle sonorità plastiche e molto levigate.

M+A: “Things. Yes”


Dietro alla sigla M+A ci sono due giovani ragazzi italiani di Forlì: Michele Ducci e Alessandro Degli Angioli. Il loro “Things. Yes” si muove nell’ambito del pop elettronico, adatto sia per il circuito strettamente legato ai club, ma anche per un ascolto casallingo disimpegnato. Dieci tracce in programma che affondano le loro radici stilistiche in un sottosuolo fatto di suoni sintetizzati, ostinati ritmici, voci mandate in loop quanto basta per appiccicarsi saldamente alle nostre orecchie. Tra i passaggi meglio messi a fuoco va annoverata “Liko Lene Lisa”, un bel pezzo giocato su tempo sostenuto e pieno di spunti timbrici, mentre sono diversi i passaggi a vuoto, troppo inclini a una dozzinalità che rende sterile qualsiasi tentativo di rendere il suono personale e autentico fino in fondo. In tal senso vedi i capitoli “(we)” o anche “Blà”, tracce troppo leggere e prevedibili per lasciare segno della loro esistenza, e che vanno a collocarsi in un insieme (quello del pop italiano che sbircia oltre confine) ormai così ampio al punto d’aver perso totalmente forma e senso. Lavoro onesto, va detto, anche piacevole nel suo insieme, ma grandi momenti di genialità non ne abbiamo riscontrati.

giovedì 8 dicembre 2011

Donato Zoppo: Amore, libertà e censura – il 1971 di Lucio Battisti (ed. Aereostella)


Si rivela una scelta intelligente e azzeccata quella di Donato Zoppo, non tanto dal punto di vista formale, ma certamente sotto il profilo espressivo: indagare e cercare di cogliere i significati di uno degli album meno approfonditi e osannati di Lucio Battisti, “Amore e non amore” del 1971.
Il suo “Amore, libertà e censura” (ed. Aereostella) non si limita però a raccontare la storia di un album, ma allarga il campo d’indagine a un’intera fetta della carriera del cantautore reatino e, di riflesso, a uno spaccato importante di musica italiana, in uno snodo cruciale che porterà di lì a poco alla stagione del rock progressive. L’autore arricchisce la narrazione dei fatti con una cospicua quantità di informazioni dettagliate, riuscendo dunque a stuzzicare sia la cuoriosità del neofita dell’arte battistiana, ma anche chi è già a conoscenza delle vicende. Il libro mette in risalto il pensiero di Battisti, le sue idee musicali, il suo modo di porsi al pubblico e il rapporto conflittuale con la critica giornalistica e con i discografici. Materia assai complicata dunque, inquadrata senza quel trasporto di fanatismo che avrebbe potuto rendere il tutto stucchevole e distorto.
A Zoppo va dato il merito di essersi addentrato in un territorio molto battuto riuscendo a trovare – grazie a una notevole preparazione sull’argomento - una via espressiva inedita e precisa. A incorniciare il tutto un’ampia sezione discografica e bibliografia.